
Emanuele Bartoletti
La Sime mette in luce la vocazione sociale della disciplina, da sempre attenta alla prevenzione e al benessere psicofisico del paziente, e chiede il riconoscimento di un percorso formativo minimo perché ci si possa definire medico estetico
Una grande partecipazione e un tema centrale di grande rilevanza. Così si annuncia il 44esimo congresso nazionale della Società italiana di medicina estetica (Sime), in programma a Roma da venerdì 19 a domenica 21 maggio. La grande partecipazione è attestata dagli oltre 600 abstract ricevuti, che confermano l’interesse per una disciplina che non ha sofferto crisi né durante né dopo la pandemia di Covid-19. Il tema centrale di quest’anno è la medicina estetica sociale, come ci ha spiegato il presidente Sime, Emanuele Bartoletti, che in questa intervista riflette anche sui requisiti dei percorsi formativi per normare la disciplina in mancanza di una specializzazione.
Dottor Bartoletti, ci può introdurre la medicina estetica sociale?
È una realtà che riporta alle sue origini una medicina estetica che si era un po’ allontanata da quelle che erano le sue caratteristiche descritte fin dalla sua fondazione, nel 1975. Con il tempo è diventata una medicina di trasformazione e non di correzione degli inestetismi mal vissuti: due concetti completamente diversi.
La medicina estetica sociale è nata all’Ospedale Fatebenefratelli di Roma, negli ambulatori di medicina estetica che sono stati aperti nel 1994. Essendo entrati in un ambito ospedaliero, in cui erano presenti reparti dedicati alle diverse patologie, abbiamo cercato di capire come introdurre la medicina estetica nella patologia. Dieci anni dopo, nel 2004, si è avviata una collaborazione con gli oncologi, con la gestione cosmetica dei pazienti, dopo un’attenta valutazione delle condizioni cutanee, per cercare di limitare o di correggere gli eventi avversi cutanei dovuti alla radio o alla chemioterapia. Si è subito visto che questo intervento non solo aiuta i pazienti a sopportare meglio il percorso oncologico, ma ritarda o annulla la comparsa di complicazioni dalle conseguenze gravi, perché lesioni cutanee importanti comportano spesso l’interruzione dei trattamenti oncologici.
Dopo tanti anni quest’esperienza continua – ne hanno beneficiato oltre 500 pazienti – portando allo sviluppo del capitolo della medicina estetica sociale, che si rivolge a pazienti post-traumatici, oncologici e post-oncologici e riporta la medicina estetica ad aiutare il paziente che soffre, secondo il concetto originario. I pazienti si sentono seguiti non soltanto per le cure oncologiche; la loro attenzione viene riportata dalla patologia a se stessi, con un miglioramento di condizioni psicologiche comprensibilmente difficili e della loro qualità di vita. Inoltre ricevono un appoggio a cui fare riferimento anche alla fine del loro iter terapeutico; sei mesi dopo la fine della chemioterapia o della radioterapia possono riprendere terapie di medicina estetica che li riportino il più presto possibile a una vita sociale normale.
Spesso i medici estetici svolgono la propria attività in autonomia. Occuparsi delle conseguenze di terapie erogate o patologie trattate da altri specialisti comporta un rapporto differente con gli altri medici?
Senza dubbio. Ne è prova un gruppo di studio, costituito in ambito Sime, di cui fanno parte dermatologi, medici estetici, chirurghi plastici, oncologi e radioterapisti che stanno mettendo a punto delle linee guida sulla gestione del paziente oncologico dal punto di vista medico estetico che verranno pubblicate a breve.
La medicina estetica sociale riguarda anche i professionisti che operano nel proprio ambulatorio privato?
C’è un aspetto fondamentale che coinvolge tutti i medici estetici e riguarda il processo di diagnosi. Mi riferisco al cosiddetto check-up di medicina estetica, un processo molto approfondito che ci permette di intercettare precocemente condizioni che necessitano di approfondimenti ulteriori o un approccio terapeutico tempestivo. Questa fase, oltre all’anamnesi personale e familiare, comprende un controllo cutaneo, una valutazione morfo-antropometrica, il controllo del peso, della massa magra e di quella grassa, un esame posturale, una valutazione ecografica del tessuto adiposo, una valutazione angiologica degli arti inferiori. Non è raro che in questo modo il medico estetico intercetti patologie di cui lo stesso paziente è ignaro, come un’ipertensione oppure una condizione di prediabete, oppure che rilevi nei o epiteliomi che devono essere controllati. Ovviamente, in base alla condizione riscontrata, il medico estetico indirizza il paziente allo specialista di riferimento.
Questo ruolo del medico estetico viene ovviamente insegnato a tutti quelli che si iscrivono alla nostra scuola, ma anche i pazienti devono imparare a conoscerlo, così da capire in chi possono rivolgere la loro fiducia e distinguere il medico che li sottopone scrupolosamente a questa visita da chi si limita a eseguire l’intervento estetico senza un inquadramento diagnostico generale.
Il check-up estetico rientra nel grande capitolo della prevenzione, di cui il medico estetico adeguatamente formato è protagonista. La medicina estetica nasce come terapia preventiva e il suo obiettivo primario non è quello di correggere ma, appunto, di prevenire, rallentando le manifestazioni dell’invecchiamento e promuovendo stili di vita salutari. Dopo la visita di check-up si fa un programma di prevenzione e, solo alla fine di questo percorso, di correzione.
Come ridare al medico estetico questo ruolo ancora non abbastanza riconosciuto?
Stiamo cercando di formare medici estetici attraverso una scuola che li renda consapevoli del loro ruolo sociale e della relazione imprescindibile dell’estetica con la funzione. Inoltre, la Sime sta cercando di educare il pubblico: da oltre un anno facciamo dei talk show sui social, in cui si affrontano in modo serio i temi più importanti, differenziandoci da ciò che spesso medicina estetica non è, ma viene proposto come tale. È un compito molto difficile, perché in qualche modo dobbiamo combattere contro noi stessi, dato che i social sono pieni di colleghi che promuovono la propria attività limitandosi a foto di pre e post-trattamento, senza un corretto inquadramento del caso, e dando l’impressione che certi risultati possano essere ottenuti da tutti, in modo semplice e automatico. Spesso si tratta di medici che hanno limitato la propria formazione a un corso fatto presso un’azienda e provano a vendere quel poco che hanno da vendere, come fiale di acido ialuronico proposte indifferentemente ai pazienti, che ne abbiano necessità oppure no.
Come si può agire sul percorso formativo?
La medicina estetica non è una specialità e probabilmente non lo sarà mai, perché le terapie non vengono dispensate dal servizio sanitario nazionale e assai difficilmente si potrebbero insegnare all’interno di un ospedale. Di conseguenza, le maggiori società scientifiche hanno creato dei percorsi che possono essere paragonabili a una specializzazione. La nostra scuola, come quella di Agorà a Milano, è quadriennale e permette ai medici di apprendere e anche di elaborare e maturare i temi e le tecniche insegnate. Ed è necessario, perché quello della medicina estetica è un percorso complesso, i nostri pazienti sono generalmente sani e non possono certo rischiare di ammalarsi dopo il nostro trattamento.
Se il percorso formativo abilitante è impensabile, si può invece cercare di riconoscere, a livello nazionale, un percorso formativo minimo sufficiente perché ci si possa definire medico estetico. Stiamo cercando di sensibilizzare il mondo politico a questo problema. È davanti a tutti il fatto che ci siano nella medicina estetica certe esagerazioni che non hanno senso e, prima che diventino un fattore socialmente ancora più preoccupante, spero che i politici si rendano conto che questa disciplina deve essere normata.
Renato Torlaschi